Pensieri sulle facili parole che, per quanto belle, non danno pane

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U saziu non capisci u riunu” (“colui che è sazio non comprende chi è a digiuno”), questo detto che mi tramanda la saggezza “popolana” di mia nonna ben si addice al pensiero che mi assale nelle occasioni in cui mi imbatto in lezioni di sopportazione o presunte tali.

Mal digerite sono le stesse quando a farle son soggetti che per lo più nulla sanno del digiuno e del dover tirare la cinghia.

Le belle meditazioni son giochi di parole affabili che prendono il cuore e la mente, peccato però che il più delle volte esse son bella prosa che poco attingono dal reale. Esse sono belle dal punto di vista dello stile, ma suonano alla gente come frivole canzoni, quando al desco della sera il pane non si accompagna alla minestra. Ci fanno pensare sì, ci fanno anche riflettere, ma… Un bagno di umile realismo a volte pagherebbe di più, quanto meno ci darebbe una soluzione che magari, accanto all’animo, scaldi anche il corpo.

Non vogliamo sembrare cinici, ma se ascolti di quanto sia bello l’anarchico abbandono delle posizioni che il momento attuale sembra suggerire, o quanto sia intriso di pace il lasciar correre gli eventi, la prima cosa che ti viene da obbiettare razionalmente è: “bene, perché non ci dimettiamo tutti da tutto. Perché non lasciamo fare tutto alla mano invisibile e noi stiamo lì a guardare, tanto tutto si fa da sé.”

Vivo in quotidiano contatto con realtà che poco spazio lasciano all’abbandono e all’allegria, sono uomini e donne che non sbarcano il lunario. Uomini e donne che non fanno altro che accalcarsi in fila in cerca di una via per arrivare alla fine del mese in maniera quanto meno dignitosa. Tutta questa gente, lo vedi scritto nei loro occhi, non ha il tempo di filosofare come spesso sento e leggo, questa gente chiede solo un po’ di giustizia sociale e se questa non c’è non gli si può certo imputare colpa alcuna.

A questa richiesta di giustizia noi non possiamo rispondere con dolci rime e prosa coinvolgente, né lavarci le mani dicendo non possiamo far nulla di più. Non possiamo, perché ci rimprovererebbe la nostra stessa parola, quella Parola a cui spesso diciamo di ispirarci. A questa richiesta noi crediamo debba darsi risposta, e risposta fattiva. Interrogando chi? Mi si potrebbe obbiettare. La nostra coscienza, innanzitutto, rispondo! Quella coscienza che sembra non interrogarsi più, che sembra non cercare più soluzioni, ma le sfugge preferendo ad esse parole, magari dolci parole che purtroppo lasciano sovente chi ci ascolta con il famoso palmo di naso.

“Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova?” questo lo scrive Giacomo (san Giacomo), non un razionalista che non ha ben chiaro l’abbandono alla Divina Provvidenza. L’abbandono se inteso come non attaccamento alle cose va bene! Tuttavia non rischi di scivolare nell’ignavia e soprattutto non diventi vacuo esercizio mentale. Siamo parte di questa realtà ed in essa siamo chiamati a vivere ed operare.

Ho sempre ritenuto importanti le parole ed il loro uso, esse servono ad istruire, ad ammonire, a consolare, non devono in alcun modo essere usate fine a sé stesse. Esse devono rispettare gli interlocutori e non accattivarsene il consenso e/o il compiacimento. Questo ancor più quando se ne fa alto uso. Ecco perché credo che occuparsi delle cose non sia ansia, ma essenziale necessità. Trovare soluzioni sia dovere, da non confondere con un convulso dinamismo.

La serafica riflessione di molti è fin troppo semplicista, lo: “stiamo calmi va tutto bene” non mi piace, come non mi piace colui che a pancia piena redarguisce le lagnanze di chi è a digiuno. Questa società è sempre di più “madre di grandi parole” che lasciano però per strada milioni di diseredati senza un futuro, diseredati che alla parola che consola vorrebbero si accompagnasse un ciotola di minestra e qualcosa di più: un maggior rispetto per la loro dignità, una speranza che qualcosa in più si possa e si debba fare.

Ogni giorno ha la sua pena e va bene, ma attenti a non voler rendere la vita degli uomini una resa incondizionata agli eventi, cosa che sa di fatalismo e che personalmente non condivido (non vorremo mica risvegliare il “giansenismo”). Anche perché se cosi fosse ribadisco: tutti si scenda dal nostro di cavallo, abbandoniamo le nostre care (e a volte comode) posizioni acquisite e abbassiamoci fino a quella miseria di cui noi spesso sappiamo solo parlare, e con fare ipocrita predichiamo la sopportazione di pesi che noi non tocchiamo neanche con un dito. Soltanto allora cominciamo a dar lezioni… prima conviene tacere e aver tanta comprensione! So bene che cosi non sarà, ma si gioca con le parole e anche io mi ci diletto da un po’, senza prendermi troppo sul serio.

La mia è chiaramente una provocazione, tuttavia resta la sensazione che poi è quella della nonna: “u saziu non capisci u riunu” e allora giù parole, parole mentre la gente continua a chiedere sostegni e qualche piccola certezza in più, “perché le parole per quanto belle non si mangiano” (testuali parole di una vecchietta uscita dal mio ufficio). A voglia a disquisir con lei di “paziente attesa” perché la vecchietta voltandosi, con due o tre improperi, mi mostra l’ombrello a guisa di bastone. Ora ripensando alla scenetta con l’anziana signora mi è venuto in mente un canzone che recitava cosi: “santi che pagano il mio pranzo non ne ho…” e allora penso, con buona pace degli assertori del “va tutto bene non ci agitiamo”, e se avesse ragione lei?!!… “Le parole per quanto belle non danno pane.”

Alla prossima…