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"Nero non si nasce ti ci fanno diventare"

Giorni addietro, leggevo di Lilian Thuram, già calciatore di Parma e Juventus nonchè campione europeo e mondiale con la nazionale francese, e del fatto che avesse scritto un libro in cui rivela una cosa fondamentale: non sapeva di essere nero. Ecco perchè voglio riproporre l'intervista-dibattito in occasione della presentazione di "Le mie stelle nere -  Da Lucy a Barack Obama".

"Sono il penultimo di cinque figli, nati da padri diversi. Lo dico perché nelle Antille c'è una società matriarcale, risalente all'epoca dello schiavismo, dove la condizione dei figli dipendeva da quella delle madri. Ho saputo della tratta dei neri a 16 anni, al liceo di Avon. Nessuno me ne aveva mai parlato, né mia madre Marianna, né suo padre, nato nel 1905, cinquant'anni dopo l'abolizione della schiavitù. Sono cresciuto a Anse-Bertrand, giocavamo attorno ai campi di canna da zucchero, avevo otto anni quando mamma disse che andava a cercare lavoro in Francia e che sarebbe tornata a prenderci. Mantenne la promessa e io a nove arrivai a Fougères, 75 km da Parigi. A scuola mi chiamavano Noiraude, dal nome di un cartone animato con due mucche, una bianca e una nera. Quella nera non ne faceva mai una giusta. Perché, mi dicevo, la mucca stupida deve essere quella nera? Lì mi accorsi del colore della mia pelle. In classe ero l'unico nero".

Stupito?
"Molto. Neri non si nasce, lo si diventa. Quando qualcuno ti sbatte in faccia uno stereotipo. Giocavo in un club di portoghesi, volevo progredire e passare al Fointanebleau, società più forte. Venni sconsigliato dai miei compagni: quelli sono borghesi, non ti accetteranno. Invece trovai un'atmosfera amichevole. Questo per dire che i pregiudizi nascono ovunque, da cose che non si conoscono, ma che magari si ascoltano in famiglia, in chiesa, tra amici. Bisogna riflettere sul passato per capire l'oggi. Non cambi gli altri se prima non hai cambiato te stesso. Perché c'è un sistema politico che divide in gruppi e ci campa: noi e loro, e loro non sono come noi, ma subalterni. E la stessa discriminazione la soffre la donna. Bisogna educare le nuove generazioni, cambiare il modo di vedere, non esistono per nascita esseri superiori. Ma devi avere voglia di studiare e di conoscere".

Diciamo allora che negli stadi italiani ci sono degli asini?
"Ci sono degli stupidi, sì. Una minoranza che grida offese. Ma lo stadio è una fetta della società, la riflette, non la crea. Io ho più paura di chi lavora dentro il sistema. Come François Blaquart, dt della nazionale francese, che voleva imporre delle quote etniche, per limitare la presenza di giocatori neri. Chi mostra le banane allo stadio è dannoso, ma non pericoloso. Si rivela per quello che è: gente preistorica, disperata, rimasta indietro. Infastidita e invidiosa che un ragazzo come Balotelli sia giovane, bravo, ricco. E molto forte. Come si permette? Ma quei tifosi non sono nati così, qualcuno e qualcosa gli ha permesso di diventarlo. Si lamentano che Balotelli non sia simpatico. Che c'entra con il colore della pelle?".

Un nero non può essere italiano, è il coro.
"Volete la purezza? Non siate ridicoli. Pensare che l'altro sia diverso e inferiore è molto rassicurante, aumenta l'autostima, ma nasce da una falsità. Questi sono gli ultimi colpi di coda di un atteggiamento che verrà spazzato via, ma che è meglio non sottovalutare. Bene ha fatto il Milan ha lasciare il campo dopo gli insulti a Boateng. A togliersi la maglia per primo però non dovrebbe essere il giocatore nero, ma i suoi compagni. Loro dovrebbero reagire e dire: signori miei, questi cori ci offendono, non rispecchiano i nostri valori, noi così non giochiamo. Bisogna lottare, non fare finta di niente".

Nei dieci anni in Italia quei cori li ha sentiti?
"A Parma, in una partita contro il Milan, sento cantare "Ibrahim Ba mangia banane sotto casa di Weah". Dico ai miei compagni: devo andarci a parlare. Lascia perdere, è la risposta. Ma la sera non riesco a dormire, mi manca l'aria, quella frase mi picchia in testa, così vado a discutere con la curva. La domenica successiva i tifosi rispondono con lo striscione "Thuram rispettaci". Invece di riflettere su quello che avevo detto, si erano sentiti offesi loro. A Torino arriva un giornalista e si presenta: sono il filippino del signore... Ma come ti permetti di identificare un popolo con una mansione? Mia madre ci ha mantenuti facendo la domestica, non si è mai lamentata, e mi ha insegnato che è importante avere un altro sguardo. Forse per questo alla Juve non me ne andavo subito, ma osservavo il gran lavoro che faceva Romeo, il custode".

Nel libro gli sportivi sono pochi: c'è il pugile Al "Panama" Brown.
"Sì. Era gay. Io sono nato con l'idea che nelle Antille non ci fossero omosessuali e nemmeno nello sport. Ma ho dovuto aprire gli occhi e ora sono favorevole alla nuova legge francese che prevede matrimonio per tutti. In più combatto il luogo comune che i neri siano favoriti nello sport, nella danza, nella musica. Quali neri? E in quali sport? Si dice: i neri sono veloci. Ma quando si parla di neve non si racconta che i bianchi sono geneticamente portati allo sci. I campioni bianchi hanno nome e cognome, sono individui. I neri sono genericamente neri, anche se non hanno la stessa lingua e cultura. All'inizio non erano degni di fare sport perché non abbastanza umani. Poi sono diventati vincenti perché a loro veniva facile essere aggressivi e bestiali. Assurdo".

Le sue stelle nere preferite usano molto il cervello.
"I neri sono stati scienziati, dottori, esploratori, poeti, ricercatori. Ma non ce lo raccontano mai. Hanno inventato tra l'altro il semaforo, l'asciugatrice, la trasfusione di sangue, il floppy disk. Da piccolo volevo fare il prete, ho cambiato idea quando ho saputo che non potevano sposarsi. Ho chiamato il mio primogenito Markus in onore del leader giamaicano Garvey e il mio secondo, Khephren, perché i faraoni avevano la pelle scura. Nel 2008 sono stato al funerale di Aimè Cesar, poeta e politico della Martinica. Scriveva che si può continuare a dipingere di bianco i tronchi degli alberi, ma le radici restano nere. Mi sono avvicinato alla bara e gli ho detto: "Può andarsene in pace, perché ha educato un'intera generazione"

Le hanno chiesto: cosa farai dopo lo sport?
"Ho sempre risposto: voglio cambiare il mondo. E come Einstein penso che il mondo è pericoloso non per quelli che fanno del male, ma per quelli che lo lasciano fare".

(immagine ed intervista tratti da Repubblica.it del 22 Aprile 2013)

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